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  • Il Fatto Quotidiano

Breve storia della "Provincia".


Breve storia dell'ente diventato simbolo dei carrozzoni inutili. Dalla creazione ai tempi del Regno Sabaudo al referendum fallito del governo di centrosinistra. In mezzo le contestazioni di La Malfa - il primo a definirne i costi come "inutili" - e la nascita degli enti tripli come Barletta-Andria-Trani. E anche Berlusconi un tempo promise di abolirle, incalzato dagli elettori che avevano letto La Casta, nel senso del libro. Era una bugia: Forza Italia affossò la legge che eliminava gli enti inutili

Immortali, highlander, impossibili da uccidere. Forse è proprio per questo motivo che le province sono diventate l’ente più odiato di sempre. Più vecchio delle Regioni, più anziano della stessa Unità d’Italia, protetto dalla Costituzione, l’ente intermedio è oggi il simbolo dei carrozzoni inutili. Di più: l’emblema della casta e del privilegio. Anche adesso che una riforma riuscita a metà – quella di Graziano Delrio e Matteo Renzi – le ha ridotte a una forma ibrida: a causa della bocciatura del referendum costituzionale continuano a esistere ma con le competenze dimezzate. Una sorta di zombie, guidate da presidenti e consiglieri non eletti dai cittadini, con il personale ridotto ai minimi termini e i bilanci in rosso, le province sono tornate di nuovo al centro del dibattito politico. Per l’ennesima volta.


Il padre delle province – anche se forse sarebbe il caso di parlare di nonno – fu Urbano Rattazzi. Correva l’anno 1859 e l’Italia non esisteva ancora. Il regno di Sardegna aveva appena annesso alcune parti delle Lombardia e Rattazzi – allora ministro dell’Interno del governo La Marmora – ne approfittò per ridisegnare l’architettura amministrativa sabauda dividendo lo Stato in province, circondari, mandamenti e comuni. Non un’idea originalissima: Rattazzi voleva creare uno Stato molto centralizzato e quindì copiò il sistema usato dalla Francia. D’altra parte in Italia l’idea di circondario provinciale esisteva già nel Medioevo dei comuni. Quello schema ai Savoia piacque: venne dunque esteso anche all’Italia unita. Poi nel 1948 le province finirono nella neonata Costituzione repubblicana all’articolo 114. Nessuno, all’epoca, si sognava di eliminarle.

Almeno fino al 1970, quando il Parlamento inserì nella Carta le Regioni a Statuto ordinario. I comuni c’erano già da prima, adesso sputavano le Regioni: a cosa servivano ancora le province? Cominciarono a chiederselo un po’ tutti. Il primo fu forse Ugo La Malfa, il leader del Partito Repubblicano che sul giornale di partito polemizzò sul costo degli enti intermedi: “Diventa sempre più alto, mentre le funzioni sempre più prive di contenuto”. Il vecchio La Malfa, in pratica, fu il primo nemico dell’ente simbolo della casta. Probabilmente a sua insaputa.


Il dibattito si riaccese alla fine degli anni ’80. In Parlamento si discuteva del nuovo ordinamento delle autonomie locali. Qualcuno ipotizzò di abolire quell’ente piazzato a metà tra comuni e regioni. Ma quella era pur sempre la Prima Repubblica: ad essere abolito fu il limite minimo di abitanti per creare una provincia. Era fissato a 200mila cittadini: venne rimosso per far nascere nuove province di tutti i tipi. Come Vibo Valentia, Rimini, Lodi. Poi fu la volta di quelle doppie come Forlì-Cesena, Pesaro-Urbino, Massa-Carrara, Carbonia-Iglesias. Più esilarante il caso di quelle a tre facce: Barletta-Andria-Trani, tre capoluoghi per una sola provincia, o Verbano-Cusio-Ossola, con capoluogo Verbania ma nome triplo per non scontentare nessuno. Identico escamotage in Sardegna per la provincia del Medio Campidano, poi diventata del Sud Sardegna, sintesi tra le città di Sanluri e Villacidro. Nuovi enti, nuove prefetture, nuove archivi doppi e tripli: una mancia per i politici locali che facevano bella figura coi loro collegi elettorali.


Il 2 maggio del 2007, però, in libreria spunta un volume destinato a cambiare la politica italiana. Non è un scoop e non contiene neanche intercettazioni compromettenti: è un’inchiesta sugli sprechi del Belpaese firmata da due giornalisti del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il titolo è semplice, evocativo, e dal futuro fortunato: La Casta. Vende più di un milione di copie in pochi mesi. Dentro, tra i vari presunti sprechi, ci sono ovviamente anche le province. Che sull’onda del malcontento popolare vengono inserite anche nei programmi elettorali per le politiche del 2008. Persino quello di Silvio Berlusconi, che nel solito studio di Porta a Porta dice a Bruno Vespa: “Le province sono tutte inutili e fonti di costi per i cittadini: è pacifico che debbano essere abolite“. Walter Veltroni riesce a farsi scavalcare pure su quel punto: è quindi costretto a dichiarare di essere d’accordo “col principale esponente dello schieramento avverso”. Passano tre anni ed effettivamente la maggioranza di centrodestra vota insieme all’opposizione di centrosinistra. O meglio: il Pd si astiene. Mentre i berlusconiani votano contro la soppressione delle province. È il 5 luglio del 2011 e la Camera boccia la proposta dell’Italia dei Valori. Antonio Di Pietro ha gioco facile ad arringare la Camera: “Qui in aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della Casta“. Giuseppe Castiglione, presidente dell’Unione delle province italiane col Pdl, esulta: “Con la votazione di oggi si chiude l’inutile discussione sull’abolizione delle Province: ci auguriamo che da qui si possa partire con un vero confronto sulle riforme necessarie per il governo dei territori”. Tre anni dopo Castiglione farà parte del governo Renzi che sulla “inutile discussione” costruisce – e approva – una riforma intera. Anche col voto di Castiglione.


È con l’arrivo Mario Monti si comincia a fare sul serio. Arriva il decreto spending review: tra gli obiettivi c’è quello di accorpare 35 enti intermedi. Il ministro Filippo Patroni Griffi si presenta in conferenza stampa con tanto di cartina geografica ma raccoglie qualche ironica battuta: nel piano del governo andrebbero fuse anche le province di Pisa e Livorno, che – per usare un eufemismo – storicamente non si amano. Non se ne farà nulla, anche perché nel frattempo le Regioni vincono il ricorso davanti alla Corte costituzionale. La questione è rinviata al nuovo governo. La morte delle province viene prima annunciata dall’esecutivo di Enrico Letta: anche lì niente da fare. Anche perché nel frattempo va in scena la congiura di Renzi. Sarà l’ex sindaco di Firenze con il fidato Delrio ad abolire le province per decreto. In realtà non è vero: le province continuano ad esistere ma vengono svuotate delle competenze. Passa quasi tutto a comuni e regioni, tranne l’edilizia scolastica, i trasporti e l’ambiente. In più vengono abolite le elezioni. I consigli provinciali, infatti, vengono trasformati in Assemblee dei sindaci: doveva essere il primo passo verso la cancellazione definitiva in attesa che il popolo ratificasse la riforma della Costituzione di Maria Elena Boschi.


La riforma Delrio complica le cose anche perché vale solo nelle Regioni a statuto ordinario. In quelle a Statuto speciale si va in ordine sparso: in Friuli Venezia Giulia le 4 province diventano 18 Unioni territoriali intercomunali. In Sardegna da 8 province si passa a 4 più una città metropolitana. In Sicilia, dopo tre anni di caos istituzionale, le 9 province diventano 6 Liberi Consorzi e 3 Città metropolitane. A regolare la questione doveva essere la riforma della Costituzione, fondamentale per modificare l’articolo 114 che recita: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Per eliminare quelle due parole – “dalle province” – il 4 dicembre del 2016 doveva vincere il Sì. Come andò quella notte è storia nota. Renzi il rottamatore finì rottamato. Le province che tutti volevano rottamare definitivamente sono ancora lì. Intoccabili. O quasi.

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