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  • Writer's pictureStelio W. Venceslai

Se c’è emergenza



Fumi di guerra e preoccupazioni diffuse. Ma davvero siamo alle soglie di una terza guerra mondiale oppure la stiamo già combattendo, come pensa qualcuno?

Secondo il premier polacco, Tusk, i prossimi due anni saranno i più difficili dell’Europa dopo il 1945. Secondo la Meloni, forse la guerra non è così imminente come potrebbe sembrare ma è invece urgente una deterrenza europea. Secondo Macron, invece, le cose sono arrivate a un punto tale che si dovrebbe intervenire con truppe europee a sostegno dell’Ucraina.

Stiamo attraversando un periodo molto difficile. Sembra che la guerra, alla fine, sia l’unica soluzione possibile. Qualche altro milione di morti e tutto tornerà come prima, in attesa di un altro conflitto. Gli uomini non imparano mai. Siamo l’unica razza sul pianeta che si stermina di volta in volta. Uno sguardo complessivo registra solo guerre, vicine o lontane, non importa neppure dove: in Africa, in Asia, in Medioriente, in Europa.

In Europa c’è, ormai, la sensazione di una possibile guerra. Inutile far finta di niente e aver timore della parola stessa. Gli spettri del passato sono molto vicini. Ciò che accade in Ucraina influenza direttamente le nostre vite: l’orso russo e l’agnello europeo. Un’Europa indifesa non può far nulla. Dipende mani e piedi dalla NATO che, a sua volta, dipende dagli Stati Uniti. In una situazione di pace questo sistema di dipendenze può anche andare, ma in un’emergenza, fa acqua da tutte le parti. Siamo all’emergenza? Parrebbe di sì.

Dopo cinquant’anni gli Stati dell’Unione discettano sull’eventualità di un esercito comune, ma come? Discutono di finanziamenti, ventilando varie ipotesi. Al solito, la burocrazia comunitaria guarda a terra e non alza gli occhi alle stelle.

Certo, per fare un esercito europeo ci vogliono i soldi e una politica estera. Occorreva la crisi ucraina per pensarci? Abbiamo perso mezzo secolo in chiacchiere e ritrosie, ora, per affrontare il problema. Se (e dico se) siamo all’emergenza, il problema dei finanziamenti diventa secondario.

Se uno affoga, chi lo deve salvare non si chiede se ha il certificato di nuoto della palestra o se rischia il raffreddore. Si butta. Ma lo deve volere, questo è certo. Il dubbio è che i Paesi europei lo vogliano veramente. I Paesi dell’Unione sono tutti sovranisti. Si sono spogliati delle loro difficoltà economiche trasferendole all’Unione europea ma restano attaccati a quei pochi brandelli di sovranità che sono loro rimasti e puntano i piedi. Sommando assieme tutte le spese militari dei Paesi dell’Unione si scopre che spendiamo più della Russia e un po’ meno degli Stati Uniti, con un’efficienza complessiva pari a zero.

Questi eserciti nazionali da operetta sono buoni per le parate e per le sfilate, non per fare una guerra e neppure per intimidire un supposto avversario. Vogliamo continuare questa sceneggiata ad uso e consumo del sovranismo nostrano? Troppo tempo è trascorso da quando i Francesi di De Gaulle affossarono la CED, la Comunità europea di difesa.

Gli scenari sono mutati e l’agnello europeo dovrebbe diventare lupo. Non basta belare o sventolare la coda.

Il militarismo ha fatto il suo tempo, tranne che in Russia. I nostri ragazzi non fanno più il servizio di leva. Nessuno vorrebbe andare a morire per difendere l’Europa (o l’Ucraina). Dalla fine della 2^ Guerra mondiale una propaganda insistente a favore della pace ha smidollato qualunque velleità bellica. Ed è giusto. La guerra è inutile, costosa e barbara, ma se qualcuno ci attacca bisognerà pure difendersi. Non bastano le preghiere o l’occupazione delle Università.

In realtà, se volessimo fare davvero sul serio (insisto sul se), la soluzione d’emergenza sarebbe anche troppo semplice: scorporare i bilanci militari nazionali e unificarli in sede europea, razionalizzando e coordinando le spese e gli investimenti.

Lo stesso discorso si potrebbe fare per i vari Ministeri degli Esteri nazionali.

Alle elezioni europee le alchimie tra le varie componenti del Parlamento sono una questione astratta. I veri problemi sono altrove e ben più complessi. Rispetto a loro, ad esempio, le questioni politiche che si dibattono in Italia dal sindaco di Bari al Ramadan nelle scuole oppure al caso d’Ilaria Salis e al questionario attitudinale dei giudici sono questioni secondarie.

Il problema vero è se si vuole affrontare il tema degli Stati Uniti d’Europa, con tutte le conseguenze economiche, politiche ed internazionali che ne deriverebbero e con le inevitabili cadute riduttive sulle politiche nazionali, che diventerebbero solo questioni regionali.

Questo problema cruciale non si affronta in alcun modo. Allo stato attuale del dibattito europeo è più importante sapere se la von der Layen sarà riconfermata Presidente della Commissione europea e con quale coalizione, se di centrosinistra (come attualmente) o di centrodestra o solo di centro (se il centro avrà i voti auspicati). Sciocchezze, rispetto alla posta importante che è in gioco: il destino di noi tutti.

Sarebbe interessante sapere che cosa si propongono le varie coalizioni sul destino dell’Europa. Una federazione tipo Stati Uniti? Una confederazione di Stati? La semplice, e palesemente superata dagli eventi, unione economica? Su questi temi gli elettori europei dovrebbero decidere, non su Orban, sulla Le Pen o su Salvini, se questi riesce a raggranellare un numero di consensi per salvare la faccia dopo tanti fallimenti elettorali.

L’emergenza politica che stiamo vivendo (difendere o no l’Ucraina sino alle estreme conseguenze, distaccarsi dagli Stati Uniti nell’ipotesi di un’elezione di Trump, i rapporti con la Cina, la necessità di prendere una posizione chiara sul Medioriente, in funzione solo e soltanto degli interessi europei) impone parole chiare e prospettive serie. Non le case green, i balbettii sulla transizione digitale o le alchimie finanziarie necessarie per la difesa.

La macchina deve andare avanti con una visione da realpolitik del futuro dell’Europa, non al rimorchio di questa o quella intemperanza politica nazionale.

L’Unione europea in questi decenni ha fatto molti passi avanti sulla strada dell’integrazione, ma questi passi non bastano più. Siamo arrivati al collo della bottiglia. Non facciamoci delle illusioni. Dopo il Covid, dopo l’Ucraina, dopo Gaza, il mondo è cambiato. Anche l’Europa deve cambiare.


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